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Quell’improbabile incubatrice mi diventa la mangiatoia, quel bambino – che forse non ce l’ha fatta – 
mi diventa per quest’anno il Bambino.

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In una sera di fine novembre, dopo i soliti corsi di storia della teologia presso l’Istituto di Scienze Religiose, rientravo da Belluno: l’auto ormai conosce ogni curva e le marce si scalano "da sole" nel tratto tra Valle e San Vito; solo i fari improvvisi di qualche SUV mi indicano qualche compagno di strada troppo preoccupato di guadagnare una manciata di secondi nel raggiungere Cortina; l’attenzione si intensifica dopo Dogana, per scorgere i passi di qualche cervo o capriolo ai bordi della strada.
Intanto ripensavo alla lezione appena tenuta su uno strano autore cristiano, morto nella prima metà del III secolo cristiano, tal Tertulliano.
 Di fronte a filosofi che annacquavano il mistero dell’incarnazione, il grande scrittore insisteva: Dio si è fatto carne, Dio si è fatto uomo, Dio è sceso nella miseria dell’umanità.

 Addirittura, pur di non stemperare questa convinzione, arrivava ad immaginare un Cristo bruttino, deforme, quasi malformato, ben diverso da quelle statuine con i boccoli d’oro a cui ci ha avvezzati una certa iconografia del Natale.
 Del resto – argomentava l’antico scrittore – quel Bambino era il figlio di Dio che nasceva per accettare l’ignominia della croce…
Mentre i paesi della Valle del Boite si succedevano come tappe di avvicinamento a casa, cercavo di allestire con la fantasia il mio presepe, sulla soglia dell’incipiente Avvento.
 Ma subito, l’antica riflessione di Tertulliano mi faceva sovrapporre al presepe immagini di una recente vacanza, che la generosità di una persona amica mi ha permesso di vivere in India. Particolarmente vivide si facevano le immagini di Calcutta, patria e sacrario di quella grande donna, che la testimonianza della Carità ha condotto fino al premio Nobel: madre Teresa.
Innanzitutto ricordavo la fiumana di gente che il 16 novembre scorso correva verso quel braccio del fiume che conduce al mare parte delle acque del Gange: un popolo in festa, perché al tramonto di quella giornata – ci spiegava la guida – poteva immergersi in quelle acque sacre e lavarsi degli errori dell’anno passato. Quanta gente, quanti colori, quanta festa!
In mezzo a quella marea, un ragazzino di 8-9 anni, affamato, ci riconobbe come stranieri e ci accerchiò elemosinando qualche denaro. 
Intanto dal vicino chiosco giungevano le fragranze di intingoli esageratamente speziati: anziché dargli denaro, pensammo di offrirgli la cena… che venne spazzolata in meno di un minuto.
l ragazzino ci salutò, con un sorriso che scriveva nel nostro cuore: è bastato un boccone a renderlo felice!
Se le convinzioni della fede cristiana mi stampassero sul volto un sorriso altrettanto loquace… 
Quel volto troverà posto nel mio presepe come pastore intento a guardare la grotta: se un boccone di pane gli ha dato tanta gioia, quanta dovrà averne il mio pastore di fronte al Pane nella mangiatoia!

da De carne Christi di Tertulliano
«Vi sono, senza dubbio, altre simili stoltezze, riguardanti gli oltraggi e le sofferenze di Dio, a meno che non vogliamo definire come cosa saggia un Dio crocifisso… Che cosa, infatti, è più indegno e vergognoso per Dio? Nascere o morire? Portare la carne o la croce? Essere circonciso o inchiodato? Essere nutrito o sepolto? Esser deposto nella mangiatoia o rinchiuso nel sepolcro? Ti dimostrerai ancor più saggio, non credendo a queste follie, ma non potrai essere sapiente se non apparirai stolto agli occhi del mondo, credendo alla follia di Dio. (...) 
Non so trovare altre cose, di cui io possa arrossire senza vergogna, dimostrando che la mia impudenza è buona e la mia follia felice. Il Figlio di Dio è stato crocifisso: non è un disonore, perché il disonore è necessario. Il Figlio di Dio è morto: bisogna crederlo, perché è inspiegabile. Dopo la sepoltura è risorto: è cosa certa, perché impossibile»

Di buon mattino, dopo poche ore di sonno, ero entrato nella casa madre delle missionarie della carità, per celebrare la Messa assieme alle suore, che si ogni giorno si raccolgono in preghiera prima di disperdersi nei centri di assistenza della loro opera. Dalle inferriate entrava il primo rumore di una frequentata arteria cittadina, in un paese dove il clacson sembra essere il trastullo di tutti gli automobilisti; dentro, esse celebravano il mistero della quotidiana discesa in terra di Dio.
 E quella folla di religiose, molte giovani o giovanissime, sedute per terra, ancora visibilmente assonnate, che attingeva motivazioni e convinzioni alle fonti della loro carità.
 Sulla nuda parete di una povera cappella, che man mano ai miei occhi diventava più solenne di una basilica patriarcale, un crocifisso e la scritta: I thirst (ho sete).
Che regalo quella celebrazione eucaristica, proprio all’alba del mio compleanno!
 Che intensi quei canti, quei silenzi, quella fila di 96 novizie che si accostavano al Signore prima di servirlo nelle stanche membra di un bambino o di un moribondo, che per la prima volta in vita riceveva un bicchiere d’acqua in dono: I thirst!
Anche quelle giovani suore saranno parte del mio presepe: nel ruolo degli angeli.
E infine la visita serale alla casa dei bambini: 150 bambini, con al massimo sei mesi, stipati in un caseggiato non più grande della canonica; culle e lettini per ogni dove; pianti e vociare di infanti in ogni stanzone.
 Da un piano all’altro, da una stanza all’altra volti e volti… Compreso quello di un bambino idrocefalo, cui erano riservati ancora al massimo tre o quattro giorni di vita: giorni di un dolore ultimo, ma giorni senz’altro più carichi di amore e dedizione di quelli che avrebbe avuto sul marciapiedi, dove la madre lo aveva abbandonato.
E nella stanza dei più piccini, un bambino, dal nome impronunciabile, partorito il giorno e trovato per strada accanto alla puerpera moribonda. 
Con mano tremante una suora gli aveva applicato la sonda nel nasetto, per alimentarlo artificialmente. «Ma Lei è medico?»: chiese alla religiosa uno della compagnia in visita. «Magari… – rispose con un sorriso la suorina… – qui impariamo subito a fare certi interventi». Quell’improbabile incubatrice mi diventa la mangiatoia, quel bambino – che forse non ce l’ha fatta – mi diventa per quest’anno il Bambino.
Perché quella caotica città, su cui gravitano 14 milioni di abitanti, non è decisamente una bella città, ma quest’anno mi ricorda tanto Betlemme.

 


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Quaderni Bellunesi. Laboratorio di cultura e politica della provincia di Belluno

Realizzato con la collaborazione del Circolo Culturale "Antonio della Lucia"