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La morte e il funerale religioso negato  a Welby.
Sfida ai Cattolici
Il buonismo, il piacere di essere con la maggioranza che contesta ha fatto premio tra tanti cattolici.
Ancora una volta Giuliano Ferrara con parole sferzanti
Atto settimo del laboratorio

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Indice di tutti gli articoli

Abbiamo cercato di spiegare l’altro giorno, a proposito dei funerali religiosi negati a Piergiorgio Welby, quel che ci pare di sapere.
 Sapere culturalmente, senza l’apporto della fede, della carità e della sequela di Cristo, che in senso stretto ci riguarda ma non ci afferra.
 Sapere laicamente. Librescamente. Irreligiosamente. 
Aridamente. Razionalmente.
 Il che è un piccolo sapere, se confrontato con lo stare saldi, con il comprendere e il decidere della fede, ma pur sempre un sapere. 
Non era complicato.
La nostra tesi era questa.
 Negare o concedere le esequie a una persona che laicamente, orgogliosamente, e perfino con una sua felicità poetica primitiva, ha voluto testimoniare morendo la sua concezione della vita, una concezione relativistica, che comprende la possibilità di una vita non degna di essere vissuta a causa del dolore, è un fatto canonico, che può apparire minore, controverso. 
Ma stabilire un confine certo della fede, sia pure nella forma della dottrina, è un dovere del clero cattolico, nella tradizione.
 Togli al cristianesimo il significato del dolore e il dolore come significato, togligli il vivere morendo di Agostino e anche la redenzione sola fide pur nella oppressione del corpo di Lutero, e gli hai tolto tutto. 
Che è per l’appunto il progetto moderno della scristianizzazione del mondo, un progetto che spesso ormai passa anche attraverso i cristiani ricolmi di doni di bontà, i fedeli che amano e praticano la carità in ogni sfumatura della loro esistenza, e quelli tra loro che a me paiono autentici, come un Aldo Maria Valli per esempio, che su Europa si dice in fiero disaccordo con questa nostra idea (o una Roberta De Monticelli, filosofa, o un Filippo Gentiloni, teologo di base). 
Siccome ciò che ho banalmente scritto dell’impossibilità di togliere il significato del dolore senza uccidere il cristianesimo è vero incontestabilmente, e non solo perché lo dica il Papa o un atto formalistico del vicariato di Roma; siccome il Cristo del perdono infinito è anche il fondatore di una chiesa, popolo di Dio e gerarchia, che opera con lui e in suo nome, la faccenda si fa complicata. 

Dirimerla non è facile, perché il perdono è innato, la carità senza confini è una tentazione per tutti, perfino per un ateo devoto assimilabile a un criminale morale. 
Ma le preghiere per Welby non sono mancate, neanche tra i membri del clero, e un suo ricordo affettuoso e sincero non è mancato nemmeno tra noi infedeli, anche tra coloro che sono convinti della decisione di negare le esequie religiose, magari a caro prezzo nel mondo mediatico e facile di oggi.
 Per dirla con una formula immaginifica e profana: è il perdono che traccia il solco, ma è la dottrina che lo difende. 
Una chiesa senza Cristo certo no, ma un Cristo senza la chiesa, una fede di testa e di libera coscienza senza corpo mistico e sacramenti, anche questo no, mi pare. 
Almeno per i cattolici, dico. 
Per non aggiungere che di Cristo non si ricorda mai, accanto al perdono santificante, la spada che giudica, la rivendicazione di una via ch’è verità e vita, e perfino il mistero della resurrezione, a testimoniare la dignità della persona tutta, 
compreso il dolore. 
Comunque, il problema è questo, se si voglia dirimere la questione, capirla, invece di recitare filastrocche umanitarie buone per ogni uso, sempre, poco costose ma non gratuite, gratificanti ma prive di grazia.
 Il problema è che i cristiani e cattolici conciliaristi più convinti, quelli che la ricezione del concilio ultimo è incompleta, quelli che vogliono considerarne o forzarne il significato in senso ecumenico-relativista, quelli che la “Dominus Jesus” di Ratzinger è uno scandalo, quelli che la papolatria di Giovanni Paolo II è uno scandalo, quelli che il cristianesimo non è il sale della terra ma il lievito della pasta, insomma un ingrediente spirituale, o addirittura una mentalità, dovrebbero assumersi le loro responsabilità. 
Pensate dunque questo vostro cristianesimo senza dottrina, scrivetene, predicate.
 Avendo la presunzione di disputare alla chiesa i suoi atti, e sottoporli a critica, abbiate anche l’umiltà di dire la vostra, di dottrina, di spiegare che il dolore può non essere cristianamente significativo e che nel mondo moderno, tra i segni burrascosi dei tempi che lo Spirito Santo e la nuova pentecoste mandano in terra, il cristianesimo va pensato e vissuto altrimenti. 
Spiegateci il cristianesimo della tracheotomia, della fertilizzazione artificiale, della libertà di procreare quando lo si desideri a prescindere dai diritti del concepito, del matrimonio al di là della differenza di genere.
E’ troppo facile prendere il cristianesimo che c’è, e da duemila anni, e darne una versione novatrice e irrituale, con la carità usata come una scusante, un’esimente, e tutto senza pagare il prezzo di giustificarla, questa versione vostra.
 Insomma, provate a scrivere le vostre lettere paoline, provate a buttar giù una confessione pubblica agostiniana, provate ad arzigogolare “de ente et essentia” come i tomisti.
 I protestanti luterani e calvinisti ci hanno provato, l’esito è parecchio controverso, ma ci hanno provato. 
Provateci anche voi, cattolici gravemente e autenticamente insoddisfatti per come la dottrina protegge le verità di fede, anzi, la verità della fede e nella fede.
 Provateci.

Giuliano Ferrara. Il Foglio 30 dicembre 2006

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