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La morte di Welby ha lacerato molte coscienza credenti e non.
Requiem Laico
Tra i tanti commenti letti proponiamo quello di Ferrara perché ci è sembrato il più ricco di stimoli,
 il meno intriso di banalità

Atto settimo del Laboratorio

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Indice di tutti gli articoli

Sogno una morte diversa da quella di Piergiorgio Welby. 
Preferirei di no. 

Preferirei la fine del cugino Michele, una casa di provincia linda come non è mai stata, una stanza da letto che sembra un sacrario di specchiere e madie senza un grammo di polvere, le visite dei parenti e degli  amici che sono accolti nel tinello dalle donne di famiglia e dai bambini, poi introdotti discretamente dal malato semicosciente che subisce le loro carezze, un viso sofferente e rassegnato sfiorato dall’amore al cospetto di lenzuola bianche come la luce del mattino d’estate, i cateteri nascosti con pudore, e forse anche la foto del Papa, forse anche un frate pieno di bonomia che mi sfruculia e mi dice che sono sulla via del ritorno. 
 Il mio è un sogno laico, non credente, di chi non accetta la banalizzazione della vita anche attraverso la serializzazione della morte come sfida analgesica al significato del dolore. 
Ed è anche un sogno a cui non posso dire di saper corrispondere, quando la realtà si metterà ad inseguirlo.
 Penso anche che una società in cui si muore così come il cugino Michele ha un rapporto più stretto e fiducioso con la verità, qualunque essa sia, massima delle verità essendo quella che io agisco da uomo libero ma non sono il mio padrone.
 Chi sia il padrone, poi si vedrà faccia a faccia, ma ora, nell’enigma,so di non esserlo io stesso.

Tuttavia capisco il bisogno di requie, capisco il requiem laico di Welby e dei suoi compagni, compreso il medico anestesista che su sua richiesta lo ha sedato e ha staccato la spina.
Sono contrario all’eutanasia per legge, che è la sostanza del problema dissimulata con grande e legittima abilità politica nella campagna di cui Welby ha voluto essere il banditore, ma non posso approvare l’obbligo di cura, che è una contraddizione in termini, e non posso negare ad alcuno le terapie sedative della sofferenza fisica quando la vita si esaurisce, per lo meno nel corpo.
 Vorrei che la norma giuridica se ne stesse il più possibile lontana dalla legalizzazione della morte, che ha già fatto progressi abbastanza spettacolari con il trionfo culturale e la pratica indiscriminata dell’aborto, con il protocollo di Groningen sull’eutanasia dei bambini ammalati, con lo spegnimento coatto per sentenza comminato a Terry Schiavo, con un disprezzo per il vicino che genera terrore senza fine e impone la brutta e bronzea legge della guerra giusta in soccorso del convivere.
Le uniche norme che accetto sono quelle a difesa della vita dal suo inizio alla sua fine naturale, con la depenalizzazione dell’aborto come eccezione assoluta e non come forma relativistica di controllo della riproduzione o di contraccezione ex post.
Tuttavia considererei una sciagura un processo nato dal caso Welby, e idiota il grido di "assassino" indirizzato a coloro che hanno realizzato la sua volontà, amministrando il loro culto attraverso una strana forma legale di disobbedienza civile. 
Il culto radicale per le libertà civili, che ormai sistematicamente si converte in battaglie religiose intorno all’idolo giacobino dei diritti dell’uomo, compreso il diritto di ordinare la propria morte o comminarla ad altri in nome della libertà di vivere come si vuole, io lo combatto. 
Ma se i radicali, nell’ambivalenza che è propria di ogni guerra religiosa, si fanno scudo dell’orrore che non si può non provare per la sola idea dell’obbligo di cura, abbasso la mia lancia.
 Tra i radicali, per la sua e per la mia dignità, annovero anche Welby. 
Il cui gesto pubblico è ovviamente controverso. 
Il cui bisogno privato di riposo, imperativi della fede a parte, non lo è. 

Giuliano Ferrara. Il Foglio 22.12.06

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